Cosa serve dopo il carcere? Un lavoro, please…

di Fabrizio Ravelli

A volte ritornano.

Succede che persone detenute in cura al reparto la Nave, liberate dopo aver scontato la pena e aver seguito un percorso di trattamento della loro dipendenza, finiscano di nuovo in carcere. Questa è una sconfitta per tutti, ovviamente.

Succede che, una volta fuori, ricaschino nell’uso di sostanze e commettano di nuovo reati. È un grosso problema che ha che fare con fallimenti personali, con scelte “facili”, con debolezze psicologiche. Ma non solo.

C’è una questione fondamentale da affrontare, là fuori. È il fatto che chi esce dal carcere, per rimettersi sui binari di una vita onesta e “normale”, non ha bisogno solo dell’assistenza che gli operatori del Sert forniscono per superare la dipendenza. Serve avere una casa, e avere un lavoro.

C’è sull’ultimo numero della rivista Left una bella intervista a Lucia Castellano, direttrice generale del ministero della Giustizia per l’esecuzione penale esterna e per la messa alla prova, ex-direttrice di carceri come Bollate, Marassi, Eboli. Spiega, innanzitutto, che molti condannati a pene lievi (fino a 3 anni, anche 4 in alcuni casi) non dovrebbero stare in carcere, ma potrebbero appunto essere “messi alla prova” con lavori socialmente utili.

Il settore delle pene alternative è ancora debole, in Italia. Molti detenuti, soprattutto stranieri, non possono usufruirne perché non hanno casa o permesso di soggiorno. Molti non trovano occasioni di lavoro, con un salario decente che permetta loro di mantenersi e contribuire al bilancio familiare. Affrontare questo problema richiede una mobilitazione che coinvolga enti locali, associazioni, servizi sociali, ministeri. Là fuori ci sono ostacoli molto alti da superare.

Perché a volte ritornano, ma ci piacerebbe che non tornassero.